Un j’accuse tra il pallone e la politica
Le metafore calcistiche portano sempre con sé la parvenza d’esser usate impropriamente, senza parsimonia. Tuttavia, quando si vuol fornire un quadro esemplificativo di una certa grottesca patologia della politica italiana, le suddette metafore sembrano calzare a pennello. Caratteristica del Bel Paese, che si presta sin dagli albori con tradizionale promiscuità e leggerezza all’arte satirica.
Nell’esercizio retorico di questo breve saggio, il termine di paragone preso in prestito dal mondo del calcio, al fine di esaminare due criticità della nostra sinistra e del Partito Democratico, è il sostantivo “leader”.
Il leader: è impossibile immaginare un collettivo senza capitano a cui fare riferimento: ci si troverebbe dinnanzi ad una squadra incapace di leggere i momenti di gioco e di reagire ai colpi sferrati dall’avversario. È questa una delle attuali grandi sfide e complessità della sinistra italiana ed in particolare del nostro Partito. Agli occhi di un giovane militante, la questione potrebbe sembrare fresca, scaturita dalle recenti sconfitte inflitteci durante il referendum del 2016 e le elezioni nazionali del 2018, ma in realtà l’assenza di un leader di statura e legittimato dalla base è un fattore che ritroviamo periodicamente nella storia della sinistra italiana del Dopoguerra, specialmente in cicli politici dai contorni aspri e scabrosi, e a testimonianza di ciò, si può far riferimento a tre casi ai quali seguirono altrettante disfatte, ma avente un unico comune denominatore: l’incapacità di essere leader.
Nel 1989 cadde il Muro di Berlino e Gorbacev prese in mano le redini del potere annunciando le operazioni di trasparenza e di de-burocratizzazione in Unione Sovietica, le gemelle perestrojka e glanost’. In Italia la dirigenza del PCI avvertì la necessità di dover assestare nuovamente l’equilibrio ideologico del partito, con significativi cambiamenti di sostanza e di forma, poi concretizzatisi nella svolta della Bolognina. L’onere di tale manovra venne conferito ad Achille Occhetto, in quanto segretario. Nonostante il notevole sforzo profuso, Occhetto non riuscì mai a compattare solidamente la base dell’elettorato di sinistra e le correnti intestine: inabilità grave poiché l’estrema fragilità del momento avrebbe suggerito una maggiore accortezza nel tenere unite, seppur eterogenee, le diverse anime del pachidermico partito comunista italiano. Non è un caso il fatto che il dirigente piemontese non ottenne la maggioranza dei voti durante la prima elezione a segretario del Pds nel 91′, funesto presagio della tragica sconfitta del 94′, la quale generò un grandissimo vuoto che fece piombare la sinistra nell’horror vacui. Un vuoto che, come asserito precedentemente, è basato sull’assenza di una leadership, sulla mancanza di una figura di rilievo che possa proteggere o condurre il partito, a seconda dei momenti specifici.
Vicenda analoga accadde alcuni anni dopo, quando Massimo D’Alema venne eletto Primo Ministro in seguito alla caduta del Governo Prodi: qui la sinistra ebbe modo di testare le capacità di un uomo fidato in roboante ascesa, in particolar modo dopo la grande sfida della riforma costituzionale, interrotta da un ingeneroso Silvio Berlusconi. Le aspettative, pur trattandosi di un rimpasto, erano molte, in larga parte tradite dall’incapacità di D’Alema di stringere un solido legame fra le pluralità del centrosinistra ulivista, nonostante l’operato positivo dei due governi da lui presieduti, che hanno visto un estenuante lavoro nel ridurre le disuguaglianze che allora pesavano su lavoratori e studenti soggetti a disabilità, (emanato nel 1999 è il nomenclatore tariffario, ancora oggi utilizzato). Tuttavia, l’inerzia inconcludente che si venne a creare nelle file dirigenziali dei Democratici di Sinistra ebbe come risultato l’ennesima sterilità di leadership. Le conseguenze si scontarono qualche mese dopo con la netta vittoria di Berlusconi, condita con una delle parentesi di governo più stabili dal 45′ ad oggi.
Senza rispolverare ricordi troppo lontani, un recente riferimento alla terza occasione persa è datato 2013, quando Pierluigi Bersani riuscì in quello che molti candidati alla Segreteria del Partito non ebbero modo di conseguire: un appoggio caldo e unito dei tesserati, compatti anche grazie all’appoggio degli sconfitti renziani. Ma la non-vittoria delle elezioni spense per l’ennesima volta le nostre speranze, dando vita ad una legislatura tormentata, con il seme ormai germogliato del populismo a 5 stelle. La caduta di Bersani ha forme simili a quelle di Occhetto, ma differisce nella sostanza: l’incapacità, in tal caso, si palesò nella rigidità di una comunicazione vetusta, nell’esercizio di una propaganda poco accattivante, ed è qui che si ricongiunge alla forma del primo caso analizzato, ovvero nella mancanza di un carisma e di un’immagine propositiva, nel vestire una personalità convessa e dialogante anche con un un elettorato distante.
Questi tre casi non sono certamente gli unici nella storia secolare della sinistra. I loro contorni spigolosi ed emblematici ne suggeriscono un raffronto con la situazione attuale: un partito senza figure di riferimento carismatiche ha in comune lo stesso destino di una zattera alla deriva, ossia quello di abbandonarsi alla corrente. Ma nel contesto in cui stiamo operando è assai rischioso osservare una dirigenza acefala, contesto insidioso in cui nuovi poteri e soft-power emergono in superficie, pensiamo all’influenza dei social media, talvolta ingigantita dalla penetrazione di hacker sul libro paga di qualche corte russa. La mancanza di una direzione alla quale appellarci condividendola o criticandola è patologia epidemica, ma altresì endemica, che espone il partito ad un’emorragia di militanti, ad una perdita di appeal nei confronti delle nuove generazioni. Una congiuntura che frattura internamente ed esternamente, come dimostra il crollo dei tesseramenti nel 2017, da 400mila a 90mila; come dimostra la perdita di Marzo del triangolo rosso fra Emilia, Toscana e Umbria, geometria d’espressione di forza e tradizione, ultimo residuo del voto d’appartenenza, riflesso di un abbandono rancoroso, legato anche e soprattutto ad un Partito che non riflette più la stessa passione e tende a ramificazioni incomprensibili per l’elettorato.
Ma non aver un leader è pericoloso poiché la mancanza disegna un asimmetria fra la sinistra e le destre emergenti, le quali si dispongono in campo con dei numeri 10 con tanto di fascia di capitano: Salvini dai suoi è già denominato “Il capitano” e Di Maio pare aver spazzato via ogni altro pretendente allo scranno penta-stellato dopo la poco convincente elezione via internet. Leader che traggono maggior forza dalla legittimazione che la critica riserva loro: l’obiettivo è infatti colpire il Ministro degli Interni ed il Ministro del Lavoro e pressoché nulle sono le invettive nei confronti degli altri ministri, segretari, sottosegretari o deputati di maggioranza, le cui sbandate vengono spesso accantonate per assecondare la critica ai due burattinai giallo-verdi. Una sovraesposizione mediatica che irrobustisce Salvini e Di Maio e cementifica i loro sostenitori, meccanismo che conoscemmo bene sotto le parentesi governative di centrodestra, in cui la fiducia verso Berlusconi nell’elettorato crebbe in modo direttamente proporzionale ai cori antiberlusconiani intonati dalle opposizioni; tattiche fallaci ed errori marchiani che pesano e peseranno sulla percezione dell’opinione pubblica nell’identificare i veri protagonisti del Governo giallo-verde.
In conclusione, per concludere la metafora iniziale, si può asserire che avere un capitano sia ora vitale, perché gli avversari sono oggettivamente superiori, vuoi per fame, vuoi per volontà di rivincita. Ma è vitale perché nella nostra storia ogni grande trofeo è stato alzato dalle spalle vigorose di un 10, si veda le vittorie referendarie e parlamentari di Berlinguer ad exemplum. Questa chiosa custodisce la speranza che la prossima guida sia non solo un capitano, ma anche un fuoriclasse.
Alessandro Orlandi
GD Alba